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06 luglio 2002
 
"Mi sono abbandonato, mi sono abbandonato, mi sono abbandonato..."
Pietro ha questo modo strano di parlare: ripete tre o quattro volte ogni frase, anche la più banale. All'inizio t'innervosisce, poi non ci fai più caso.

Pietro è piccolo, magro, la faccia bruciata da sessantacinque estati. Non gli piacciono i lavori di fino: è buono per scavare fondamenti, buttare calcestruzzo, tirare su muri a bozze; lavori grossi e di fatica.
"Io a fare quello che fai te ci diventerei scemo", mi dice ogni tanto. "Scemo, scemo ci diventerei" (da interpretare come complimento).
Pietro non fa lo sbruffone. Quelli come lui sono quasi scomparsi: lavorano da quand'erano bambini e sono pronti a imparare qualcosa dall'ultimo arrivato. Ci sono (c'erano) manovali che hanno passato tutta la vita a impastare calce e "servire" gli altri; senza lamentarsi, senza pretendere promozioni, sopportando gli scherzi e le urla di due o tre generazioni di giovani galletti.
Io da loro ho imparato l'umiltà.

Pietro scuote la testa. "Mi sono abbandonato..."
Vorrebbe dire sono demoralizzato, mi sto lasciando andare. Il sole di quest'ultima estate l'ha vinto e lui non si dà pace. Si guarda le mani incredulo: "Non ce la faccio a finire, oggi". Vorrei mettergli un braccio sulle spalle e stringerlo un po', ma mi trattengo. Lo metterei in imbarazzo.
"Mi sono abbandonato, mi sono abbandonato, mi sono abbandonato..."



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